Lamborghini Miura, com'è nata la prima supercar

Dallara e Gandini, l'ingenere e lo stilista raccontano la genesi dell'auto icona di Sant'Agata Bolognese

di Alberto Sabbatini

08.07.2016 20:50

Gli americani hanno coniato il termine “supercar” apposta per lei. Per semplificare, con una parola-slogan, cosa rappresentasse la Lamborghini Miura. Quando nacque, cinquant’anni fa esatti, nella primavera del 1966, la Miura rappresentò una vera svolta per il mondo dell’automobile.

Nessuna auto stradale dell’epoca era così bella e avveniristica. Bassa e compatta, aggressiva ma seducente. Con un motore V12 da 350 cavalli e una tecnologia racing sotto la carrozzeria che ne determinava quelle forme così sportive.

Gli americani la definirono “l’italiana con le curve più sinuose dopo Sofia Loren”. Frank Sinatra, che acquistò una Miura, spiegò così la sua scelta: “Chi vuole sembrare qualcuno compra una Ferrari, ma chi è qualcuno sceglie una Lamborghini”.

Lamborghini Miura la prima supercar del Toro: foto

Lamborghini Miura la prima supercar del Toro: foto

Le immagini del primo mito di Sant'Agata Bolognese, la Miura, lanciata sul mercato nel 1966.

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E pensare che quella supercar che tutto il mondo ci invidia fu materialmente costruita da due ragazzi italiani meno che trentenni all’epoca. Un Ingegnere e uno Stilista. Uno ne forgiò la meccanica, l’altro ne disegnò le forme. Cuore e ragione. La coppia perfetta per dar vita a un mito.

Come Jobs e Wozniak, ma dieci anni prima del computer Apple. La storia di come nacque la Lamborghini Miura è un romanzo appassionante che vale la pena rivivere nei giorni del compleanno della Miura proprio attraverso le parole dei due uomini che l’hanno creata. L’Ingegnere lo Stilista. Che oggi, cinquant’anni dopo, sono diventati due icone della storia dell’automobile.

L’Ingegnere, è Gian Paolo Dallara, che lasciò presto la Lamborghini per tornare al suo vecchio amore: le corse e la Formula Uno. Oggi Dallara, classe 1936, è titolare di un’azienda che costruisce le migliori monoposto per le competizioni: sono sue tutte le Formula Indy che gareggiano in Usa, nella gare tipo Indianapolis. Ma sono di sua produzione anche le monoposto GP2 e Gp3. E pure i telai delle Formula 3 e le Formula E elettriche che corrono ovunque nel mondo.

L’altra metà del binomio, il cuore, è Marcello Gandini. Stilista geniale cresciuto alla scuola di Nuccio Bertone. E che dopo la Miura ha firmato altre automobili-capolavoro, come la Lancia Stratos e la Lamborghini Countach. Non è una coincidenza che la storia della Miura nasca proprio dalle corse.

Anche se a Ferruccio Lamborghini non piacevano le competizioni. “Però Lamborghini amava le sfide - racconta Dallara - e amava l’innovazione. Mi spinse a far qualcosa di diverso per distinguersi dalle Ferrari e dalle Maserati, che erano il punto di riferimento dell’epoca in fatto di sportività. Ferrari e Maserati avevano sulle proprie GT stradali uno schema ormai superato: motore anteriore e sospensioni a ponte rigido. Mentre le corse stavano tracciando una realtà tecnica ben diversa: si era da poco passati al motore posteriore che permetteva di spostare i pesi più indietro, ridurre i momenti di inerzia e migliorare guidabilità e motricità. Così io mi ispirai alla Ford GT40, una vettura sport nata nel 1964 che aveva fatto la differenza fra le auto da corsa a ruote coperte, perché aveva il motore posteriore centrale e l’architettura più moderna per l’epoca. Decidemmo di spostare quell’architettura tecnica che stava diventando dominante. E facemmo la Miura proprio come la Ford GT40. Ferruccio Lamborghini mi appoggiò con entusiasmo perché era conquistato dall’idea di costruire un’auto tecnologicamente più avanzata delle Ferrari”.

Però Dallara aveva un problema. Un motore troppo lungo. L’unico propulsore di cui disponeva Lamborghini era il V12 di 4 litri costruito da Giotto Bizzarrini due anni prima per la prima 350 GT. Un V12 dalle dimensioni generose. “Volevamo montare il motore dietro, ma col nostro cambio ZF a 5 marce, la Miura sarebbe venuta troppo lunga. Risolvemmo il problema montando il motore in posizione trasversale e così anche il cambio”. Anche il telaio era rivoluzionario. “Non volevamo un telaio in tubi, ma in lamiera. Però non si poteva farlo stampato perché costava troppo. Per cui lo facemmo in lamiera piegata”.

Fatto il telaio e il motore, Lamborghini decise di presentare soltanto questo chassis nudo e crudo al Salone di Torino dell’autunno 1965. Non l’auto completa carrozzata e finita, perché ancora non esisteva! Come non esisteva il nome Miura. E qui entra in scena lo Stilista: Marcello Gandini. Assieme al suo titolare Nuccio Bertone. Bertone vede il progetto P400 di Lamborghini, se ne innamora e si offre di “vestirlo”. Lamborghini accetta perché Bertone non lavorava con gli “odiati” Ferrari e Maserati.

Così Bertone affida il progetto Lambo al suo miglior stilista, Marcello Gandini. Che era ancor più giovane di Dallara: 28 anni. Gandini ci mette poco a disegnare le forme della futura Miura. “Ho iniziato a fine novembre ‘65 e in pochi giorni lo stile è venuto da sé. Quello chassis così moderno mi ispirava. La prima soluzione che ho disegnato era già perfetta. Lo stile della Miura deriva dalla cultura dell’auto sportiva italiana da corsa, che vinceva alla Mille Miglia e a Le Mans, trattato in modo moderno. Per quello che il design della Miura è piaciuto subito a tutti: perché era nell’immaginario della gente abituata all’auto sportiva”.

Dallara ricorda il momento in cui Gandini e Bertone vennero a Sant’Agata a mostrare lo stile della futura Miura. “Il disegno della carrozzeria era azzurrino chiaro, su sfondo nero. Era bellissima. Io e Lamborghini ci siamo guardati e abbiamo detto: non toccate più niente. Va bene così!”.

“Tornai a lavorare per completare il modello di stile 1:1 - aggiunge Gandini - e ricordo che lo terminammo alle dieci di sera del 24 dicembre. Appena in tempo per andare a festeggiare a casa il Natale. L’auto fu pronta per il salone di Ginevra del marzo ‘66. Colorai la carrozzeria del colore che piaceva a me: arancio. Amavo le tinte forti, infatti la prima gamma di colori con cui fu venduta la macchina erano tre tinte d’impatto: arancio, giallo e verde chiaro”. Intanto Ferruccio aveva coniato il nome: Miura, che derivava dalla sua passione per i tori e dal suo segno zodiacale. Il primo di una lunga serie.

A Ginevrala Miura scatenò un entusiasmo incredibile. “Con la Miura - dice Gandini - sperimentai la mia formula del successo: ai saloni per me l’unica reazione che conta, per capire se un’auto ha colpito nel segno oppure no, è una sola: un “ohhhh!” di sorpresa. Se la gente rimane a bocca aperta vuol dire che ci ho preso, altrimenti no. E con la Miura fu un’esclamazione continua. Ricordo molto bene la reazione di Dallara che mi ringraziò, visibilmente commosso”. Gandini però svela che fu difficile perfezionare i dettagli della Miura. “Per risparmiare sui costi, dovevamo usare molta componentistica esistente sul mercato.

Ad esempio i fari anteriori a scomparsa e quelli dietro non erano altro che quelli della Fiat 850 spider, mentre i fanalini davanti venivano dalla 500. E le serrature erano della Simca 1000. Dovetti lavorare molto per inglobarli e nasconderli in parti della carrozzeria perché non se ne capisse la provenienza”. È così che nacquero le famose “ciglia” che circondavano i fari anteriori e fecero dimenticare che erano quelli economici di una Fiat 850. “Il vero problema per rendere armoniose le forme della Miura - spiega Gandini - è che Dallara, per realizzare un’auto veloce, aveva tenuto le carreggiate molto strette. La Miura era larga appena 1,76 metri. Le dimensioni di un’utilitaria di oggi. All’inizio fu un problema farla apparire grintosa e ho dovuto tenere la carrozzeria più larga delle carreggiate per ingannare l’occhio e renderla aggressiva”.

Mentre Gandini perfezionava lo stile, Dallara cominciò a riscontrare i primi problemi dal punto di vista meccanico. “L’inconveniente più grosso venne dalla trasmissione: per trasmettere il moto al cambio avevamo messo la frizione sul primario del cambio, con una frizione dei nostri trattori. Sorsero problemi di rumorosità perché gli ingranaggi erano grandi e fischiavano. Perciò abbiamo introdotto un ingranaggio folle per ridurre il diametro degli altri. Abbiamo risolto il problema del fischio degli ingranaggi, ma il motore è diventato controrotante, e questo ha creato ulteriori problemi perché gli spinterogeni, a quel punto non erano più adatti. Insomma, fu un momento di piena sperimentazione. Tanto che arrivammo a vendere la prima auto quando il prototipo aveva fatto pochissimi km di collaudi: meno di 30mila km. La Miura poi non aveva il servosterzo perché non era diffuso a quei tempi. Il problema era che non aveva nemmeno il servofreno, semplicemente perché non c’era lo spazio per montarlo. Credevamo anche, sbagliando, che se ne potesse fare a meno. E i freni non erano nemmeno ventilati”. Una splendida supercar la Miura ma non era esente da tanti piccoli problemi.

Con l’esperienza di oggi e la precisione da ingegnere, Dallara trova tanti difetti alla Miura di allora. “Scaldava in modo eccessivo. I radiatori erano piccolini e le ventole sottodimensionate. All’epoca per andare da Modena al mare Adriatico, d’estate, bisognava attraversare Bologna perché non c’era l’autostrada. E nelle giornate torride e nel traffico era frequente doversi fermare a bordo strada per far raffreddare il motore. Però la Miura andava davvero forte. Ma quando la si guidava al limite, era sovrasterzante e quindi instabile. Il problema principale era che aveva molto peso sul retrotreno ma le gomme erano troppo strette, perché uguali di sezione davanti e dietro. Quindi era difficile gestire la potenza. È buffo oggi pensare che quella scelta di gomme fu fatta semplicemente per ingenuità. Non montammo gomme di maggior sezione dietro semplicemente perché non avevamo lo spazio per installare due ruote di scorta differenti nell’auto!”.

Ma qui Gandini dissente in parte. “Gian Paolo non ricorda che mettemmo ruote uguali perché non ne esistevano altre. Anche volendo, non avremmo potuto metterne di maggior sezione dietro. All’epoca la gomma più grande sul mercato era una Pirelli 205/70-15”. La stessa che avevano tutte le altre auto sportive. E quella adottammo. Davanti e dietro. All’inizio degli anni ‘70 arrivarono le Pirelli ribassate e di sezione maggiore». Fu l’epoca in cui nacque la SV.

La versione finale della Miura, la cui sigla stava per Super Veloce. Arrivò nel 1971, con un motore maggiorato a 385 cv e tante migliorìe indotte dall’esperienza. Ma a quell’epoca l’ing. Dallara già non era più in Lambo. “Me ne andai nel 1968 e direttore tecnico divenne il mio più stretto collaboratore, l’ing. Paolo Stanzani. Fu lui a realizzare la Miura SV e risolse tanti problemi di gioventù delle prime Miura. E adottò finalmente gomme posteriori più larghe delle anteriori. Poi Stanzani spostò il cambio davanti al motore risparmiando il peso della campana frizione. E quella divenne l’architettura della Countach”. La supercar Lamborghini che caratterizzò gli anni Settanta. Anche quella disegnata da Gandini. Con linee spigolose e avveniristiche che rappresentarono una vera svolta. Ma questa è un’altra storia.

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