Le bielle e le bestie: Ferrari 512S e Porsche 917

Le bielle e le bestie: Ferrari 512S e Porsche 917

di Redazione

23.09.2009 ( Aggiornata il 23.09.2009 12:13 )

Corse e arte, motori e musica. Realtà ruggenti e sogni rombanti s ’ incontrano quasi in dissolvenza, intersecando quattro leggende. Due macchine e due uomini. Ferrari 512S, Porsche 917, Steve McQueen e Nick Mason. Fu Steve McQueen, nel 1970, a rendere protagoniste del suo film “Le Mans” queste due auto da corsa, la 917 e la 512S, creando un immortale biopic povero di parole e sceneggiato sinfonicamente in modulazione 12 cilindri.
Una sorta di “Savana Violenta” d’asfalto, buio e pioggia, che avrebbe consegnato alla settima arte la sublimazione di un’epoca, quella dei mostri spaventosi più veloci di sempre. Tutta forza brutale, instabilità indomabile e quasi zero carico aerodinamico, laddove spingersi verso le 200 miglia sul rettilineo infinito dell’Hunaudieres a Le Mans rappresentava il varco oltre le colonne d’Ercole della Velocità.
L’ingresso in una Terra sconosciuta che poi mai più, come la Luna per gli astronauti, sarebbe stata calcata, negli anni a venire, fino a oggi. Un presente in cui solo passione, nostalgia e rimpianto animano i cultori della sfida breve (1970-1971, con due titoli Marche vinti dalla Porsche) ma indimenticabile tra le due balene assassine, appunto la 917 e la 512S. Primo fra tutti Nick Mason, ultrasessantenne batterista dei Pink Floyd, inguaribile appassionato di corse, lui stesso veterano della 24 Ore di Le Mans e proprietario di una 512S che mi attende sulla pista di Cadwell Park – in Inghilterra, nel Lincolnshire, ferma ma minacciosa accanto a una 917 appartenente a David Piper, ex pilota di F.1 il quale al volante di uno di questi mostri durante la lavorazione del film di McQueen fu protagonista di uno spaventoso crash che lo portò all’amputazione di una gamba. Il passato ritorna, dunque, sostituendo l’assaggio alla sfida, ma non per questo la cronaca alle emozioni, che saranno, ne sono certo, quelle di sempre.

PRIMA LA ROSSA
In comune le due regine dell’era d’oro dell’endurance hanno i motori 12 cilindri. Orizzontali nel caso della Porsche, con raffreddamento ad aria garantito da una gigantesca ventola appena dietro l’abitacolo; a V invece per la Ferrari, con raffreddamento ad acqua.
Per il resto, telaio tubolare in alluminio per la 917 e tubi in acciaio ricoperti da fogli rivettati in alluminio per la Ferrari. Okay, comincio proprio dalla Rossa, forse per un senso di rispetto verso il mito. Mi attende la 512S che ha vinto con Andretti-Giunti-Vaccarella la 12 Ore di Sebring nel 1970 - guarda caso quella sera battendo in extremis Steve McQueen, che correva su una Porsche 908-2 con Peter Revson.
È in configurazione Targa Florio, col tettino scoperto e questo, visto che sono piuttosto alto e non ho certo il fisico da fantino, mi rende più agevole entrarci e soprattutto sistemarmi nell’abitacolo, anche se le ginocchia toccano il cruscotto e il casco se ne sta ben sopra la linea immaginaria del tetto.
Il cambio ZF a cinque velocità è dove me l’aspettavo, comodo a destra, e l’urlo del motore 12 cilindri a V di 60° è magnifico, selvaggio. Ingranare la prima provoca una lieve grattata e cominciare a muoversi e inserire le altre marce con cautela è la cosa più logica, visto che il un’indicazione fondamentale a chi guida: il segreto per lanciare una pesante Ferrari 512S su un tracciato piuttosto tormentato come questo è quello di essere il più fluidi e scorrevoli possibile nella guida, perché appena si diventa brutali l’avantreno beccheggia e si ha l’impressione di perdere la coda della macchina. Bisogna guidare puliti: l’aggressività non pagherebbe affatto. A entusiasmare invece è il motore, che suona magnificamente anche se sul rettifilo principale mi limito con cautela a spingerlo a 7500 giri, mille meno del possibile teorico, il che significa che sto andando a 265 km/h rispetto ai 350 raggiungibili in assetto corsa. Non male comunque per una belva che ha quarant'anni suonati.
Percorrere altri tre giri dà più confidenza, ma quando si spinge verso il limite si capisce ancora meglio che il retrotreno diventa leggero e la vera arma a potenziale strategico, direi la goduria, della 512S in realtà è il motore quando gira ad alto regime. Quanto ai freni, l’escursione del pedale resta costante ed è un ottimo segno, quando invece su un tracciato molto più veloce e impegnativo come Silverstone, dopo neanche due giri bisogna mettersi a pompare come pazzi.
Così, mentre termino la mia esperienza con la 512S, mi stupisco a immaginare cosa mai avranno fatto per mantenere il controllo di questa belva da oltre 500 cavalli piloti quali Ronnie Peterson, Derek Bell o Jacky Ickx al Nurburgring o sulla vecchia Spa- Francorchamps dopo ore e ore di corsa...


TOCCA ALLA 917
Rispetto alla Ferrari, entrare dentro la Porsche 917 è già un esercizio atletico, ma una volta nell’abitacolo s’avverte una sensazione di piacevole sorpresa, perché si ha una percezione di spazio ben più ampio rispetto a quello della 512S. A colpirmi è anche lo sterzo, tanto mi appare grande, anche se il proprietario della vettura David Piper mi ha spiegato che quello originale aveva un diametro addirittura maggiore. Intanto ho un problema. La mia altezza.
Difatti sbatto inesorabilmente il casco contro il tetto - un po’ come capitava all'altissimo Dan Gurney sulla Ford a Le Mans 1967 -, e nel mio caso non c’è la possibilità di sagomare una gobba su di esso, ma mi dovrò accontentare di guidare senza casco... A destra la leva del cambio risulta più lunga di quella della 512S. Cambio che, meno male, nel caso della Porsche è sincronizzato: un vero e proprio accorgimento salvavita in chiave endurance. È anche vero che il motore a due valvole per cilindro della Porsche è storicamente meno tollerante rispetto a un fuorigiri che il quattro valvole Ferrari, così il sincronizzatore finisce per equilibrare il confronto. Anche in questo caso, piuttosto che avventurarmi verso gli 8500 giri, preferisco limitarmi ai 7000-7500, puntando a gustarmi la coppia piuttosto che la velocità di punta. I
l tempo di iniziare a provare ad andar forte e capisco che l’anteriore della 917 a pari velocità tende lievemente a serpeggiare rispetto alla 512S, mentre il posteriore appare più stabile. Ma quando arrivo con brio alla parte mista del circuito chiamata  in discesa, la reazione della vettura genera un senso di insicurezza e mi rendo conto del tallone d’Achille della 917. La tendenza a perdere improvvisamente aderenza, provocata dai flussi d’aria che passano sotto la macchina. Il grande pilota Jo Siffert, uno dei maestri alla guida di questa Porsche negli Anni '70, lo diceva: la 917 se la perdi, la perdi all’improvviso e quando succede non perdona. È una tendenza che la belva tedesca ha sempre avuto quando passava in corsa il punto critico dei 240 km/h, il limite oltre il quale andava guidata con particolarissima attenzione. Un po’ come entrare in una zona proibita, ricca di tranelli a sorpresa.
Piccole scosse, rumori strani, una sensazione d’insicurezza diffusa e la paura istintiva che la 917 possa decollare da un momento all’altro piuttosto che andare dritta. D’altra parte sono le stesse cose che i piloti collaudatori scrivevano sui loro rapporti alla Porsche - per anni rimasti secretati -, circa il comportamento della vettura. Quanto al motore della 917, il 12 cilindri boxer ha più coppia di quello della 512S, anche se fa molto meno rumore. Della serie, più spinta in basso, ma assai meno musica.



COME VOLEVASI DIMOSTRARE
Tirare le conclusioni di un test così esclusivo e per certi versi unico, non vuol certo dire stabilire una scala di meriti o preferenze rispetto alla Ferrari e la Porsche protagoniste della prova stessa. Non avrebbe senso e non servirebbe a nulla, anche se non potrò che conservare un gran bel ricordo dell’ergonomia della 512S a tetto bucato... Piuttosto vale la pena riconoscere con ammirazione infinita che il fascino delle due belve è intatto, a 40 anni dal loro concepimento.
E che guidarle provando ad approssimarsi verso i loro limiti significa, oggi più di ieri, addentrarsi in una sorta di triangolo delle Bermude ricco di tranelli e insidie. Dal quale, a velocità che puntavano verso i 400 orari nella notte di Le Mans 1970-1971, potevano uscire indenni solo quei piloti di razza, dotati non solo di coraggio, ma anche d’abilità di guida, istinto e di un senso della percezione fine del limite quasi sovrumano. Uomini da leggenda per leggende di automobili, insomma, quasi a fondere ulteriormente arte, sinfonie ruggenti, tecnologia e umanità.

di Marc Hales_rielaborato da Mario Donnini

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