Lamborghini Miura, eterna meraviglia

Lamborghini Miura, eterna meraviglia

di Redazione

10.12.2009 ( Aggiornata il 10.12.2009 09:25 )

L'uomo nella guardiola scruta il lungo rettifilo fiancheggiato da filari di pioppi, in direzione Bologna. Indossa un’impeccabile divisa grigio chiaro e calza un cappello con la visiera rigida.
Non è un portinaio come altri. Il principale gli ha affidato un compito molto importante: avvistare e fermare le Ferrari. Negli Anni Sessanta i ferraristi che dal Triveneto – che non è ancora il mitico NordEst – o dalla zona orientale dell’Emilia- Romagna si recano a Maranello a “ tagliandare” il proprio bolide debbono battere le statali e le provinciali, e attraversare Sant’Agata Bolognese.
L’uomo nella guardiola, con uno scatto felino, balza fuori dalla portineria della fabbrica Automobili Lamborghini, si apposta sul ciglio della strada provinciale che collega Bologna a Modena, e si preparara a intervenire con un gesto delle mani che ha perfezionato Ferrari dopo Ferrari.
Una volta raggiunto lo scopo, il solerte dipendente si china verso il guidatore, quindi gli si rivolge cordialmente con“ Buongiorno dottore. Mi scusi, il cavaliere Lamborghini avrebbe piacere di farle vedere qualcosa di molto interessante“.
Chi possiede una 250 GT, una 330 GT o una 275 GTB, cioè le gran turismo di Maranello di quegli anni, difficilmente rifiuta un invito del genere da un costruttore di automobili comunque abbastanza noto da chi può permettersi fuoriserie da milionari. Ma che cosa sarà quel qualcosa di molto interessante anticipato dallo scaltro portinaio? In un capannone dalla ampie capriate sono allineate una paio di splendide Miura appena completate, mentre da una scala scende con passo deciso, sorriso smagliante e la mano pronta a stringere quella del potenziale cliente, il cavaliere del lavoro Ferruccio Lamborghini. Siccome l’industriale ferrarese sa trattare con i benestanti dell’epoca – lui, figlio di agricoltori, nato nel 1916 sotto il segno del toro – succede che spesso ci scappi l’ordine.
A ripensarci, per essere uno che aveva cominciato, nelle campagne del Ferrarese e Bolognese per mettere insieme le “ carioche” – così erano chiamati i trattori ricostruiti da residuati bellici – Lamborghini aveva inventato a suo modo una strategia di marketing. Che allora si chiamava, molto semplicemente, réclame.

Ma andiamno al 1966 un anno che resterà nella memoria per le tragiche alluvioni di Firenze e di Venezia. Lamborghini ha esposto al Salone di Ginevra di marzo una fuoriserie con la quale, finalmente, può davvero fare concorrenza alle gran turismo del commendatore Enzo Ferrari. Esibendo quel prototipo mozzafiato – oggi diremmo concept car – verniciato in un eccentrico colore arancione, l’ex riparatore di trattori ha stupito il mondo dell’automobile e si è meritato l’ammirazione generale. Pochi – ma non certo il costruttore di Maranello – pensano di riuscire a competere con quella macchina da sogno, più somigliante e vicina nelle prestazioni a una biposto Sport Prototipo che a una berlinetta stradale. È originale anche nel nome: come sarà per tutte le Lamborghini, appartiene a una razza di tori da combattimento.
Ha tutto, la Miura, per sorprendere. La silhouette è perfetta, stilisticamente compiuta; da qualunque lato la si guardi è superbamente schiacciata sulla strada. Esibisce soluzioni originali, quali i comandi incassati e i fari a scomparsa con le “ ciglia”. Il motore centrale posteriore disposto trasversalmente – al contrario delle Ferrari che lo montano anteriormente e longitudinalmente – è un 12 cilindri a V con un angolo di 60 gradi, 4 litri di cilindrata e potenza di 350 cavalli. La presenza della Miura sotto le volte del Palazzo delle Esposizioni di Ginevra ha fatto invecchiare le altre gran turismo in vetrina. E non solo quelle.
Ma c'è dell'altro. Ed è la magia, ma è meglio dire l’unicità con cui una delle più riuscite automobili di tutti i tempi è passata dal tratto di matita di un abile designer e dai calcoli e le intuizioni di un allora giovane ingegnere, destinato a grandi successi, come costruttore, nelle corse internazionali, a trasformarsi nel fenomeno Miura. Il tutto avviene in uno spazio temporale che ha dell’incredibile: quattro mesi. Quelli cioè che intercorrono tra i saloni di Torino del novembre 1965 e di Ginevra, a metà marzo; considerando il risultato finale, davvero un record.



L’ingegnere e il designer che hanno contribuito a far vincere una vera e propria corsa contro il tempo sono Gianpaolo Dallara e Marcello Gandini. Il primo ha 29 anni; l’altro, torinese 27enne, ha esperienze nel design industriale. Che in Italia, in quel periodo, sta vivendo un momento magico grazie alla creatività di architetti che fanno scuola; quali Bruno Munari, Ettore Sottsass, Achille Castiglioni, Giò Ponti, Marco Zanuso.
Dallara è alla Lamborghini da un annetto. Gandini, invece, è ingaggiato dalla Carrozzeria Bertone nel novembre del 1965: è chiamato a sostituire il capo degli stilisti Giorgetto Giugiaro, che è passato armi e bagagli alla Ghia.
Non ci fossero stati Gianpaolo Dallara e il suo giovane collega Paolo Stanzani probabilmente Marcello Gandini non avrebbe potuto disegnare la Miura così come l’ha disegnata. I due giovani tecnici della Lamborghini hanno progettano un autotelaio d’avanguardia: la sigla in codice è P400. È un manufatto in cui risalta chiaramente l’influenza esercitata dalla soluzione costruttiva dello chassis cosiddetto monoscocca – di derivazione aeronautica – “ inventata” dall’inglese Colin Chapman per la formidabile monoposto di Formula 1 Lotus 25 – che si dice sia stata confezionata sulle misure dell’asso scozzese Jim Clark – la prima appunto con quel tipo di telaio a “ vasca”, cioè non più tubolare ma a fogli di alluminio rivettati. Dunque, una costruzione più rigida e più leggera. È una rivoluzione, non soltanto nelle competizioni. Dallara e Stanzani hanno perciò progettato uno chassis in lamiera scatolata di acciaio, con grandi fori di diametro diverso che alleggeriscono l’intera struttura, un largo trave centrale e due longheroni laterali assicurati da elementi di rinforzo longitudinali e dal sottoscocca. È un capolavoro ingegneristico. Ferruccio Lamborghini crede così tanto nell’autotelaio P400 che decide di esporlo nudo, cioé soltanto con il motore, i freni, le sospensioni e la trasmissione, al Salone di Torino del 1965. Una scelta davvero insolita. Che però si rivelerà determinante.
Una sera  all’epoca la rassegna chiudeva tardi – si avvicina allo stand della Lamborghini Nuccio Bertone. Il maestro carrozziere torinese osserva quello chassis così innovativo. Gli gira intorno, lo scruta, lo studia. Lo ammira. Il cavaliere Ferruccio si accorge dell’ospite. E gli chiede:“Le interessa?”.
La risposta è inequivocabile:“ Certo. Per un carrozziere è un’autentica sfida”.
Un paio di settimane più tardi, una bisarca consegna negli stabilimenti della Carrozzeria Bertone di Grugliasco, fuori Torino, due telai P400. Nuccio affida il disegno del “ guscio” all’ultimo arrivato, Marcello Gandini. Per completare il lavoro ha meno di quattro mesi. Il giovane stilista sa già che cosa vuole. Sa soprattutto che cosa quello chassis gli permette. Cioè tutto. Nelle sue mani la penna a china trasforma le idee in linee rivoluzionarie, in forme basse e profilate, quasi che a tracciarle sia la velocità. Nel concepire quel telaio Dallara aveva pensato una gran turismo da competizione. Gandini gli regala una coda bassa e corta ispirata a una delle più famose Sport Prototipo di quegli anni, la Ford GT40. Dallara aveva calcolato uno chassis per un motore a elevate prestazioni, 350 cavalli. Gandini lo riveste con una silhouette aerodinamica, elegantemente aggressiva. La fuoriserie P400 Miura è pronta per stupire. I tempi sono stati rispettati. Alla Lamborghini sono presi in contropiede dalle richieste. Due anni più tardi la produzione raggiunge quota 300 esemplari. Alla fine dell’avventura, nel 1973, saranno oltre 750 le Miura uscite dagli stabilimenti di Sant’Agata Bolognese. Ferruccio Lamborghini immaginava di venderne una cinquantina.

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