Home

News

Anteprime

Prove

Primi Test

Saloni

Auto Dell'anno

Foto

Auto

LISTINO

La morte di Surtees junior. Il video dell'incidente

“Racing is dangerous”, dicono gli inglesi. Nella frenesia di un automobilismo dove il marketing e il business e dettano le regole e dove il talento di guida spesso deve arrendersi alle convenienze commerciali, spesso ci dimentichiamo che le corse sono pericolose. Ce ne dimentichiamo perché la televisione ormai con il suo occhio elettronico ci ha abituato a stemperare il dramma.
Avete mai visto un incidente qualsiasi dal vero? Anzi, l’avete mai “sentito”? Il rombo del motore è la prima cosa che sparisce di colpo, in modo quasi innaturale. Si avverte subito che c’è qualcosa che non va perché all’improvviso il rumore del motore si dissolve. Poi si sente soltanto lo stridìo innaturale delle gomme, quel sinistro presagio che precede di un attimo il fragore dello schianto. Del carbonio o del metallo che si sbriciolano contro un guard-rail o un muro. Un suono sinistro che mette brividi, ansia, paura. Anche se lo schianto dovesse rivelarsi poi assolutamente incruento.
Un incidente vissuto in televisione invece non trasmette queste sensazioni drammatiche. La tv non riproduce il rumore, né quello delle corse, né quello dello schianto e quindi cancella la componente più drammatica: il suono. La tv mostra le le collisioni con un distacco irreale, come fossero tante sequenze di un videogioco. E ci ha abituato (male) a questa specie di senso di invulnerabilità dei piloti.
Invece le corse sono pericolose, eccome se lo sono. Perché quando un’automobile si sposta a 70 metri al secondo, per sicuri che siano i telai e le piste, la fatalità è sempre in agguato. Come è successo domenica 19 luglio, che ha fatto rivivere al mondo delle corse momenti tragici che ci eravamo illusi di aver lasciato da parte per sempre.
Tragico il destino a Brands Hatch di Henry Surtees, 18 anni appena. Il più piccolo dei figli di John Surtees, l’indimenticato “figlio del vento”, campione del mondo di F.1 con la Ferrari nel 1964, l’unico pilota nella storia delle corse ad avere vinto titoli mondiali sia nell’automobilismo che nel motociclismo. Surtees che in un’epoca in cui i piloti di auto e di moto morivano frequentemente, non ha mai avuto gravi incidenti. Ma ha dovuto assistere, ormai da anziano padre di 75 anni, alla morte del figlio nello sport che tutti e due amavano di più. Henry Surtees aveva i capelli rossicci ed era stempiato come papà John. Aveva un casco che aveva decorato alla vecchia maniera, con gli stessi colori di quello di papà John: bianco con due righe trasversali azzurre, ben lontano dalla moda dei caschi multicolori di oggi. Henry correva in F.2, nella gara di casa a Brands Hatch. La prima stagione su una vera auto da corsa dopo il karting e qualche corsa in F. Bmw.
Immaginatevi la gioia di papà John di poter tifare per il figlio che in gara-1 era anche salito per la prima volta sul podio su una delle piste più difficili e pericolose d’Europa.  Poi in gara-2 l’atroce beffa del destino: la monoposto davanti a lui esce di pista e sbatte contro le barriere, perde una ruota, la posteriore sinistra. Henry arriva lanciato in quarta marcia a circa 150 km/h e quella ruota che stava rimbalzando in pista lo colpisce in pieno sul casco. C’era una probabilità su cento che la ruota picchiasse proprio lì, ma è capitato. Essere investiti in faccia da un oggetto pesante 10 kg a 150 all’ora è come cascare di testa da 10 metri d’altezza.
Henry è morto così, praticamente sul colpo per il trauma, probabilmente senza nemmeno accorgersi di cosa stava succedendo. La sua macchina ha proseguito diritta per alcune centinaia di metri priva di guida, sbattendo poi contro le barriere per fermarsi lì. Henry è esanime nell’abitacolo, la visiera si è sollevata durante l’impatto. I soccorritori lo raggiungono, non si capacitano di perché il pilota nell’abitacolo non si muova affatto dopo un’uscita di pista in fondo innocua. Non avevano visto l’impatto contro il pneumatico nel rettilineo precedente. Un vistoso segno nero di gomma sul casco bianco immacolato, lì sopra la tempia destra, farà capire dopo un attimo la natura del dramma.
Henry è morto colpito in testa da un pneumatico pesante come un macigno, una massa contro cui nulla può fare la calotta di un casco per quanto resistente. Come Hoettinger che nel 1980 a Hockenheim morì allo stesso modo - strano il destino - proprio in una corsa di F.2. Come Tom Pryce che nel ‘77 a Kyalami in F.1 si prese in faccia l’estintore di un pompiere che gli aveva attraversato la pista. Andò bene invece a Monza ‘78 a Vittorio Brambilla, che nel drammatico incidente di Peterson ricevette una ruota in testa ma se la cavò con un trauma cranico. E anche qui l’atroce beffa del destino: quel giorno a Monza Brambilla guidava una monoposto Surtees...
Ma quando papà John avrà smesso di piangere il suo sfortunato Henry, del quale ha voluto donare gli organi, potrebbe anche chiedere alla Fia perché queste F.2 monomarca low cost, costruite dalla Williams e fortemente volute dal presidente Max Mosley, perdono così facilmente le ruote in caso d’incidente.
Guarda caso, fu proprio Mosley ad imporre quindici anni fa sulle monoposto i cavi di ritenzione per evitare il distacco delle ruote proprio in seguito all’incidente di Senna. Ayrton morì colpito da un braccetto della sospensione perché sulla sua monoposto si era staccata una ruota. Anche quella volta l’auto era una Williams.
L’ennesima, drammatica coincidenza. Addio, piccolo Henry.