Auto elettriche: i costi della transizione li pagheranno gli operai

Auto elettriche: i costi della transizione li pagheranno gli operai

Un’auto elettrica si realizza con il 30% di manodopera in meno: il green creerà nuove opportunità ma il saldo sarà negativo

di Monica Secondino

15.02.2022 ( Aggiornata il 15.02.2022 11:40 )

Nel 1903 un banchiere americano voleva convincere Henry Ford a non investire nelle auto: “Il cavallo è qui per rimanerci, mentre l’auto è solo una novità, una moda passeggera”. Ford non gli diede retta, anzi si prodigò per portare avanti la sua visione: “C’è vero progresso solo quando i vantaggi di una nuova tecnologia diventano per tutti”. Stiamo ora vivendo un nuovo passaggio, quello imposto dalle Istituzioni, dalle auto a combustione a quelle elettriche ed è indubbio che con certezza avrà un costo. E questa transizione è molto costosa. Per costruire un’auto elettrica ci vuole il 30% di manodopera in meno rispetto a un’auto con motore termico. Si stima che, solo in Italia, si perderanno circa 60.000 posti di lavoro entro il 2035. Si apriranno opportunità in altri settori, ma non tutti troveranno una nuova collocazione. Prima di tutto perché molti hanno un’età in cui è impossibile ottenere un impiego, ma anche a causa del fatto che solo una piccola parte potrà essere riqualificata per aggiornare le competenze necessarie in ambiti diversi come la cyber security, l’intelligenza artificiale o le gigafactory.

Queste ultime in particolare potrebbero essere il bacino di sbocco naturale per i disoccupati dell’auto. Le previsioni sono che, entro il 2030, la crescente domanda di batterie aumenterà a livello globale di 17 volte fino a circa 3.600 gigawatt, con una previsione di richiesta da parte dell’UE di 565 GWh, dietro solo alla Cina, con un fabbisogno previsto di 1.548 GWh. Spunteranno quindi gigafactory come funghi, anche in Italia.

Le nuove gigafactory in Italia

Nell’ex stabilimento Olivetti di Scarmagno, vicino Torino, l’imprenditore svedese Lars Carlstrom inizierà i lavori per la costruzione della Italvolt che, con investimenti di 3,4 miliardi di euro, punta a diventare la gigafactory più grande in Europa, la 12a al mondo con una superficie di 350.000 metri quadri e una capacità che potrà raggiungere i 45 GWh prima e addirittura i 70 GWh con 4.000 potenziali dipendenti, 10.000 considerando l’indotto. Ancora in forse la gigafactory di Stellantis nell’ex sito FCA di Termoli, in teoria il terzo impianto europeo del Gruppo, dopo quelli di Francia e Germania. Data per fatta la scorsa estate, il CEO Carlos Tavares ha fatto sapere che la partita è ancora aperta e stanno negoziando con il Governo. Situazione delicata per uno stabilimento con 2.400 lavoratori. E, forse, non è un caso che proprio in vista della presentazione del piano industriale, l’1 marzo, sia stata anche rimborsata in anticipo la linea di credito da 6,3 miliardi con Intesa Sanpaolo. Fincantieri, attraverso la sua società Power4Future realizzerà una gigafactory a Cassino. Si parla di un investimento di 20 milioni di euro e si partirà con 45 posti di lavoro che, a regime, arriveranno a 200. Nell’area ex Whirpool di Teverola (Caserta), nascerà la gigafactory di Seri Industrial, che assumerà 675 persone, tra cui 175 ex dipendenti Whirpool. La gigafactory più a Sud dovrebbe essere quella a Catania, destinata al fotovoltaico. Il progetto è di Enel Green Power con un investimento di 500 milioni di euro per 1.000 addetti a regime. È evidente che i posti di lavoro creati dalle gigafactory italiane non riusciranno a compensare quelli che si perderanno. Serve un piano nazionale che, oltre ad investire bene le risorse già disponibili nel PNRR, coordini gli sforzi per riqualificare e collocare i lavoratori. Come disse Eduardo Galeano, “Lo sviluppo è un viaggio con molti più naufraghi che naviganti”. Almeno in una prima fase.

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