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USA, UE e Cina "elettroschock": agevolazioni e polemiche

Per l'UE, la decisione americana di sostenere le vendite delle elettriche (fino a 7.500 euro, ovvero 7512,19 euro al cambio attuale) solo se le vettire e le batterie sono prodotte negli USA, va contro le norme WTO, ma chi protegge il mercato europeo?

USA, UE e Cina "elettroschock": agevolazioni e polemiche

Pasquale Di SantilloPasquale Di Santillo

16 set 2022 (Aggiornato alle 12:13)

Dicono che in guerra e in amore sia tutto lecito. E visto che parliamo di una battaglia commerciale, c’è poco da meravigliarsi se un Paese cerca di difendere la propria economia e la propria industria dall’aggressività e dal predominio di un altro Paese, che peraltro già da anni insidia il mercato globale. Tanto più se il Paese che si difende sono gli Stati Uniti, quello che attacca è la Cina e quando a mettere certi limiti/vincoli non è il “diavolo” Trump, bensì “l’angelo” Biden. Il tema caldo, nella fattispecie, è quello delle agevolazioni alle auto elettriche deciso dal Senato degli Stati Uniti prima di Ferragosto, all’interno dell’”Inflation Reduction Act”. Un pacchetto da 369 miliardi di dollari che comprende molte misure per la tutela del clima, tra cui, appunto la questione auto elettriche e batterie annesse, alle quali sono stati “riservati” 36 miliardi.

L’Amministrazione Biden ha infatti previsto un credito di imposta di 7.500 dollari per gli americani che intenderanno acquistare veicoli elettrici ma solo a due condizioni precise: a) le vetture devono essere prodotte negli Stati Uniti; b) devono essere dotate di batterie realizzate con materiali made in Usa. Insomma, un bel muro contro la potenziale - anzi quasi sicura - invasione di vetture cinesi a basso costo, grazie al predominio sui microchip e terre rare - litio, cobalto e altre - proprio quelle con le quali si costruiscono le batterie. Invasione, peraltro, già iniziata in Europa. Da Pechino al momento non sono arrivate reazioni.

Chi invece ha storto il naso di fronte a questi provvedimenti è stata l’UE che per bocca di Miriam Garcia Ferrer, portavoce della Commissione Europea ha manifestato "…la profonda preoccupazione per questa nuova potenziale barriera commerciale transatlantica che riteniamo sia discriminatoria nei confronti dei produttori stranieri rispetto a quelli statunitensi". Un commento che ci ha fatto sorridere, perché arriva da quella stessa UE che con le sue scelte in tema di emissioni di CO2 ha accellerato, in maniera esagerata, una transizione doverosa per quanto realizzabile in tempi meno stringenti di quelli previsti (il blocco della produzione e vendita delle vetture con motori endotermici nel 2035, ndr), vista l’incidenza minima della mobilità su ruote sull’inquinamento e il riscaldamento globale.

Scelte che, da una parte hanno costretto i Costruttori a investimenti imponenti per convertire la loro produzione e, dall’altra, schiavi come sono della legge
del profitto a tutti i costi, li ha spinti a privilegiare il loro versante premium lasciando in prospettiva sempre ai cinesi il mercato delle city car. Ecco, aspettiamo con ansia che l’UE, invece di considerare dannose (in alcuni casi a ragione) alcune norme americane, praticamente delle trascurabili pagliuzze, si occupi di proteggere il proprio mercato con quella trave già vicina ai propri occhi che era e resta l’egemonia economica cinese.

Del resto, basterebbe avere un po’ di memoria: a fine anni ‘80 fu proprio l’allora CEE a preoccuparsi - prima dell’apertura globale del mercato (1992) - dell’espansione della produzione automobilistica giapponese. Anche se, antesignano dell’operazione fu il lungimirante Presidente della Fiat, Vittorio Valletta, che a metà anni ‘60 riuscì a far accettare ai giapponesi un contingentamento preventivo delle esportazioni di auto nipponiche nel nostro Paese proprio per garantirsi l’esplosione dei suoi prodotti sul mercato di casa. La storia insegna sempre, in fondo basta conoscerla o leggerla senza paraocchi.

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