Porsche, i segreti del V4 ibrido di Le Mans

Porsche, i segreti del V4 ibrido di Le Mans
I motivi della vittoria di una soluzione tecnica ardita e senza dubbio molto originale

di Lorenzo Facchinetti

13.08.2015 ( Aggiornata il 13.08.2015 00:31 )

Porsche ha trionfato per la diciassettesima volta in carriera e a diciassette anni di distanza dall’ultimo urrà. Dove? Stoccarda ha conquistato la 24 Ore di Le Mans a soli due anni dal debutto della 919 Hybrid, che ha poggiato le ruote sulla pista di Weissach per i primi test soltanto nel 2013. Uno degli aspetti più curiosi, comunque, è che questa è la vittoria di una soluzione tecnica ardita e senza dubbio molto originale. Non tutti, forse, sanno infatti che sotto le futuribili forme della 919, un mostro che sprigiona 900 cavalli su un corpo vettura di 870 kg, si cela un motore piccolo così: un quattro cilindri 2 litri, manco fosse una Golf GTI, con la particolarità di essere a V, che per una Porsche parrebbe quasi stonato. In realtà, al “quattro”, bisognerà farci l’abitudine perché già dal prossimo anno sulle future Boxster e Cayman debutterà proprio una nuova famiglia di propulsori turbo a quattro cilindri, sebbene non a V bensì boxer per rispettare l’architettura più cara alla Casa di Stoccarda. Le Mans 2015 è anche la vittoria del downsizing motoristico, proprio come in produzione di serie. Perché qui Porsche si è battuta, con il suo piccolo V4 2 litri, contro propulsori termici di proporzioni ben più elevate: il V8 3.7 aspirato a benzina della Toyota TS040 Hybrid, il V6 turbodiesel 4 litri dell’Audi R18 e-tron quattro e il V6 3.0 biturbo benzina della Nissan GT-R LM. Che sono appunto tutti i costruttori ufficiali che rappresentano la categoria P1 Hybrid nel mondiale Fia Wec. Ma per capire meglio il perché di queste scelte tecniche così diverse, che tra l’altro sono la chiave del successo e il fascino di questo campionato e di Le Mans stessa, occorre allacciarsi brevemente al regolamento. Tutto ruota attorno alla classe energetica alla quale ogni costruttore decide di appartenere a inizio campionato: 2 ,4, 6 o 8 MegaJoule, che è l’unità di misura che indica la quantità di energia cinetica o termica che la vettura recupera durante un giro di pista (in frenata e rilascio ad esempio, come un’ibrida stradale) e che potrà poi essere riconvertita in potenza da sfruttare al suolo attraverso i motori elettrici. Quindi, più elevata sarà la classe energetica d’appartenenza maggiore sarà la potenza che l’unità elettrica potrà scaricare al suolo. Ma con il rovescio della medaglia che per immagazzinare tanta energia occorrono batterie e sistemi di recupero più ingombranti e pesanti. Ed è proprio per questo motivo che Porsche ha deciso di adottare un motore termico così piccolo, compatto e leggero: per lasciar spazio alle componenti di un sistema ibrido per certi versi più complesso degli altri. Stoccarda ha infatti scelto la massima categoria energetica: 8 MegaJoule. E la 919 Hybrid, per raccogliere così tanta energia da trasformare poi in potenza per la trazione, ha due dispositivi di recupero contro i singoli sistemi di Audi, Nissan e Toyota: il primo è un generatore elettrico che recupera l’energia termica dai gas di scarico del motore, una soluzione simile al cosiddetto Mgu-H utilizzato in Formula 1. Il secondo è un classico generatore posto sull’avantreno che raccoglie l’energia cinetica prodotta dalle ruote anteriori in fase di rilascio e frenata, che possiamo chiamare Kers o Mgu-K. L’energia raccolta dai due sistemi di recupero viene convogliata a delle batterie agli ioni di litio raffreddate ad acqua, pronte ad alimentare un motore elettrico da 400 cavalli (che scarica sulle ruote anteriori) che va a sommarsi ai 500 cavalli passati alle ruote posteriori dal 2 litri V4, alimentato a iniezione diretta della benzina, sovralimentato con un singolo turbocompressore e con un regime di rotazione di 9000 giri. Certo, all’inizio non è stato tutto rose e fiori, per stessa ammissione del progettista e direttore tecnico Alex Hitzinger. La prima volta che i piloti Porsche hanno provato la 919, due anni fa, non riuscivano a tenere le mani sul volante e a vedere la strada dalle vibrazioni che il motore produceva. A quel punto è entrato in gioco anche Wolfgang Hatz, capo della ricerca e sviluppo Porsche e responsabile dello sviluppo tecnico motori e trasmissioni del Gruppo VW, il quale ha contribuito alla riprogettazione totale del motore V4, con innovative soluzioni (molte coperte da brevetti) che hanno garantito un funzionamento regolare del propulsore. Il V4 ha dimostrato anche di avere affidabilità, una delle doti chiave per vincere le gare endurance. Che assieme all’affidabilità globale della 919 Hybrid ha consentito di ottenere la vittoria di questa edizione della 24 Ore, tra l’altro con la vettura per certi versi meno accreditata fra le tre schierate da Porsche, quella guidata tra gli altri dal pilota di F1 Nico Hulkenberg. Una vittoria arrivata grazie anche al fatto che Porsche, a differenza delle Audi che erano addirittura più veloci sul giro, riusciva a coprire un maggior numero di giri per “stint” di guida perché il regolamento offre, alle auto a benzina un serbatoio più grande (68,5 litri contro i 54,2 litri di Audi) per compensare la maggior efficienza dei diesel.

Forza 4, come Porsche ha vinto a Le Mans col V4 ibrido

Forza 4, come Porsche ha vinto a Le Mans col V4 ibrido
Stoccarda ha infatti scelto la massima categoria energetica: 8 MegaJoule. E la 919 Hybrid, per raccogliere così tanta energia da trasformare poi in potenza per la trazione, ha due dispositivi di recupero contro i singoli sistemi di Audi, Nissan e Toyota: il primo è un generatore elettrico che recupera l’energia termica dai gas di scarico del motore, una soluzione simile al cosiddetto Mgu-H utilizzato in Formula 1. Il secondo è un classico generatore posto sull’avantreno che raccoglie l’energia cinetica prodotta dalle ruote anteriori in fase di rilascio e frenata, che possiamo chiamare Kers o Mgu-K. L’energia raccolta dai due sistemi di recupero viene convogliata a delle batterie agli ioni di litio raffreddate ad acqua, pronte ad alimentare un motore elettrico da 400 cavalli (che scarica sulle ruote anteriori) che va a sommarsi ai 500 cavalli passati alle ruote posteriori dal 2 litri V4, alimentato a iniezione diretta della benzina, sovralimentato con un singolo turbocompressore e con un regime di rotazione di 9000 giri. Certo, all’inizio non è stato tutto rose e fiori, per stessa ammissione del progettista e direttore tecnico Alex Hitzinger. La prima volta che i piloti Porsche hanno provato la 919, due anni fa, non riuscivano a tenere le mani sul volante e a vedere la strada dalle vibrazioni che il motore produceva. A quel punto è entrato in gioco anche Wolfgang Hatz, capo della ricerca e sviluppo Porsche e responsabile dello sviluppo tecnico motori e trasmissioni del Gruppo VW, il quale ha contribuito alla riprogettazione totale del motore V4, con innovative soluzioni (molte coperte da brevetti) che hanno garantito un funzionamento regolare del propulsore. Il V4 ha dimostrato anche di avere affidabilità, una delle doti chiave per vincere le gare endurance. Che assieme all’affidabilità globale della 919 Hybrid ha consentito di ottenere la vittoria di questa edizione della 24 Ore, tra l’altro con la vettura per certi versi meno accreditata fra le tre schierate da Porsche, quella guidata tra gli altri dal pilota di F1 Nico Hulkenberg. Una vittoria arrivata grazie anche al fatto che Porsche, a differenza delle Audi che erano addirittura più veloci sul giro, riusciva a coprire un maggior numero di giri per “stint” di guida perché il regolamento offre, alle auto a benzina un serbatoio più grande (68,5 litri contro i 54,2 litri di Audi) per compensare la maggior efficienza dei diesel.

  • Link copiato

Commenti

Leggi auto.it su tutti i tuoi dispositivi

Auto, copertina del meseAuto, copertina del meseAuto, copertina del mese